lunedì 24 novembre 2014

Sul ponte di coperta a Modena

Lei cercava di vedere se stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo specchio. E avendo paura di essere sorpresa dalla madre, gli sguardi che dava allo specchio avevano il marchio di un vizio segreto. 
Quello che l'attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l'estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l'espressione fedele del proprio carattere.
Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.

(Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere)


Non ho mai fatto mistero di amare Kundera. Tra le altre cose, per la capacità che ha di creare immagini impensabili legandole ai concetti che vuole esprimere.
Quando ho letto questo paragrafo, non ho potuto fare a meno di pensare, da fotografa, all'autoritratto. Quel tentativo di vedere se stessi attraverso il proprio corpo.
C'è stato un periodo, un paio di anni fa, in cui di autoritratti me ne facevo parecchi. Spesso tornavo a casa dopo il lavoro, a Roma, e mi mettevo comoda, con i vestiti da casa, nell'unica stanza che mi desse un'impressione di calore, di accoglienza: la camera da letto. Rivolgevo la piccola fotocamera dell'iPhone verso di me e scattavo. Non lo facevo per vanità, ma per rilassarmi. Per ritrovarmi, forse, alla fine di giornate che mi portavano lontano da me. Non erano selfie, quelle foto in posa in cui si individua il grado d'inclinazione della fotocamera perfetto per valorizzare il proprio viso. Anzi, spesso mi fotografavo in movimento, cercando un risultato nuovo anche ai miei occhi.

In realtà non vedevo l'ora di ritrarre qualcun altro, di me ero stufa, così come di quella solitudine e di quella vita.

Poi mi sono trasferita a Milano, e sono rinata. Con gli autoritratti fatti con l'iPhone ho smesso subito. Mi ritrovavo già in ogni ora di ogni giorno, e quell'esigenza di far affiorare me stessa attraverso il mio corpo è diventata di colpo superflua.
Un giorno di gennaio di quest'anno ho voluto testare la luce naturale della mia nuova casa. Qui non ci sono stanze e stanze no. È tutto aperto e sto bene ovunque.
Ho steso un fondale bianco e messo la macchina sul cavalletto di fronte a me. Non il telefonino, ma una fotocamera vera, di quelle che si usano per fare le immagini da stampare bene. Telecomando alla mano, ho scattato una serie che si chiama On white. Semplicissima, come un foglio bianco su cui scrivere una storia nuova. Ho celebrato così il mio cambiamento di vita, ed è stato un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.

Una di quelle foto verrà esposta a Modena in una collettiva organizzata dalla Fondazione Teatro Comunale di Modena nell'ambito di una rassegna di danza contemporanea dal titolo "Passioni in Danza".
L'inaugurazione sarà martedì 2 dicembre alle ore 19:00.

Tutte le info qui:
http://www.fondazionefotografia.org/9557/fotografia-e-danza-si-incontrano-alle-passioni/